Acrostici ed altre complicanze

Ho deciso di partecipare ad un Poetry Slam. Se non sapete di cosa sto parlando, cercatelo su Google. Per farlo devo rimettermi a scrivere poesie. Rimettermi, esatto, perché le scrivevo io, le poesie. Ero pure brava a trovare gli incastri, le rime, i ritmi e le assonanze. Lo sono ancora, ma mi mancano i temi. Non so da dove iniziare. Non ho quel tipo di malessere ispirato che mi può far venire fuori qualcosa di buono. Non ho neanche uno straccio di musa ispiratrice. Oddio, in realtà qualcosa di simile c’è, Xela, un unicorno paciocchino che mi scrive dal nord barese, ma non scatena nulla che somigli vagamente ad una poesia. Soprattutto non è Marlen.

Marlen sapeva cosa servisse per farmi partire. La sua fumosità, il suo fascino celato nel fumo di una sigaretta mai accesa, le note di “Panico!” ad accompagnare i suoi sguardi. Vedete? Basta qualche ricordo. Vorrei sapere dov’è, anche guardare da lontano la luce che avrà trovato, fuori da quella camera buia che mi faceva viaggiare. Che poi era così dannatamente vicina, ad un soffio. Non so cosa mi abbia impedito di toccarla, di soffiarle sul collo senza appannare un vetro messo lì a dividerci. Avevo paura, questo si. Paura che fosse vera, che fosse reale, che potesse vedere il suo riflesso nei miei occhi bramanti di sogni, fantasie, paesaggi e mille altre vite, quelle vite irraggiungibili a 300 all’ora che non abbiamo mai preso al volo. E quindi resta così, un ricordo sbiadito, un verso di una canzone che mi fa rabbrividire ogni volta che la ascolto, un angolo buio che rimane abitato dalla sua essenza, un vuoto dove alberga un mondo pieno di oscuri demoni e galassie di impulsi ed istinti disadattati.

Chissà dove sei, Marlen. Chissà chi ti canta, ora.

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