Lo lascia andare via così, di sfuggita imboccando la porta in fretta mentre cerca di non arrivare tardi in ufficio, ma di non lasciarmi sola. Lo sussurra quasi, sorride, intanto piango per la mia inadeguatezza e la sofferenza dei miei dolori fisici, buttandola lì come se fosse la cosa più normale del mondo… tipo “Ehi, c’è del latte in frigo, se vuoi fare colazione”, invece non ha niente a che fare né con il frigo né con il latte. È scorretto, perché non può far finta che sia normale, che vada bene per ogni situazione, specie ora che combatto con le mie viscere. Sono ore, giorni, mesi che ci vediamo, stringiamo, scambiamo le vite, le parole, i respiri. Come faccio ad esserne felice ora? Come dovrei riuscire a sorridere mentre un pugnale mi trafigge lo stomaco ed indaga senza remore i percorsi tortuosi di quei successivi 7 metri? Come dovrei riuscire a dirgli, anche solo guardandolo, che non servono le parole giuste per la completezza, ma il fatto che le abbia lasciate fluire, senza pensarci, mi rasserena?
Me e le paranoie. Capitolo ennesimo.